Qualche giorno fa ho incontrato la nuova oss che ha l’onore di farmi la doccia, onore che per me è sempre e sempre sarà, un onere. L’ho accolta in camera mia che è anche il mio ufficio, la mia sala cinema, a volte sala da pranzo e salotto, l’unico posto dove posso tenere stretto ciò che resta della mia privacy. Quando la ragazza è entrata ero preoccupata perché i primi incontri mi mettono sempre a disagio e perché avevo stoppato la tv su una puntata di Law and Order, quindi magari avrebbe riconosciuto cosa stessi guardando e non volevo lo sapesse perché non ci conosciamo. Una stupidaggine, lo so!
Mentre parlava con la mia famiglia io passavo l’icona del mouse sui contorni di tutti i personaggi dei Peanuts che si trovano sul mio desktop. Giuro che ascoltavo ma nel frattempo ero stupita pensando a quante persone diverse mi abbiano fatto la doccia in questo ultimo periodo e di come io abbia imparato a vivere questi avvenimenti con assoluta arrendevolezza. Mi rendo conto che generalmente questo sostantivo ha una connotazione negativa ma è pur vero che, nel caso specifico, opporsi alla perdita di questa autonomia non avrebbe portato a nulla di buono. Così a questo onere necessario mi arrendo e mi rendo estranea perché quell’azione è svolta in quel modo non per volontà mia. Non è vero che c’è sempre una scelta, perciò lì il mio corpo non è più mio, lo guardo ma non lo voglio vedere. Mi arrendo e faccio quello che fa l’ombra di Peter Pan: mi separo. Mi arrendo a questa dipendenza, concentrandomi sull’acqua che scivola, il profumo del bagnoschiuma, i miei capelli che allungano sempre troppo presto.
Poi, a doccia conclusa, pian piano ricongiungo tutto e ritorno come ero senza più parti mancanti o estranee, senza pensare al peso del fatto, alle sensazioni e mi riprendo la mia privacy.


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